Dal’altra parte della strada (Parte seconda)

Pian piano ci siamo abituati tutti allo loro rumorosa e vivace presenza. Il jukebox era di loro proprietà. Se qualcuno sceglieva un disco che non gradivano staccavano la spina senza problemi. La cosa che più mi piaceva era quando imbrogliavano l’oste: Paolo usava una chiave per tenere ferma la maniglia che faceva scendere le palline del biliardino, così queste continuavano a scendere una dopo l’altra ad ogni gol. Con duecento lire facevano dieci, venti partite. Una volta hanno invitato me e Laura a giocare con loro. Abbiamo accettato. Da quel giorno siamo diventati amici. Ci incontravamo spesso al circolo. Ci offrivano il gelato e chiacchieravamo tranquillamente. Fumavano, ma non solo sigarette. Mai davanti a noi. Non ci hanno mai proposto di fumare hashish o roba del genere. Anzi, cercavano di fumare meno in nostra presenza per non darci fastidio. Detestavo il fumo e detestavo anche l’odore appiccicoso delle sigarette, ma mai avrei rinunciato alla loro compagnia. Mi riusciva difficile vederli sbandati, fare i teppisti e drogarsi. Tutti noi sapevamo che Matteo aveva iniziato a fare uso di eroina. Gli altri del gruppo preferivano sballarsi con le canne e qualche volta tirare su con il naso. Intorno a loro si era creato un alone di mistero, di proibito, di terribile, ma anche di irresistibile. Ognuno di loro era un mondo a parte e intorno a questi piccoli pianeti gravitavano intorno dei satelliti. Il mio era un satellite dall’orbita ampia, altri invece erano vicini come la luna alla terra. Fabrizio era uno di questi, aveva già ventitre anni e lavorava al porto. In loro aveva trovato degli amici che non deridevano il suo aspetto fisico. Era entrato nel gruppo e iniziava a vestirsi, a parlare, a fumare, a uscire spesso la notte e non tornare a casa per giorni. I nostri genitori non approvavano, tuttavia sapevano che non ci allontanavamo mai dal circolo o dal “paese” assieme a loro. Si raccomandavano sempre di stare attente e di non truccarci troppo, ma era estate e noi avevamo troppa voglia di uscire la sera.

Quell’estate ha rappresentato anche le nostre prime uscite serali. Mangiavo a casa di Laura poi andavamo a chiamare anche Giulia e Veronica facendo un bel pezzo di strada a piedi. Indossando i nostri jeans che lasciavano scoperte le caviglie andavano al circolo sperando che ci fossero anche loro. Entravamo dalla porta e subito ci infilavamo in bagno a ritoccarci il trucco. Scendevamo le scale con il cuore in gola. A seconda di quello che suonava il jukebox sapevano se c’erano oppure no. La musica degli U2 rappresentava la certezza, mentre le canzonette melense erano un brutto segno. Una sera di agosto ci siamo seduti tutti in veranda: chi beveva birra, chi un succo di frutta, chi niente, chi parlava, chi ascoltava, chi rideva e chi si faceva gli affari suoi. Giovanni, invece, parlava. Raccontava di quando era bambino. Raccontava di sua nonna e del dolore immenso che aveva provato quando era morta. Ho avuto l’impressione che a stento trattenesse le lacrime. I genitori erano spesso via per lavoro. Ho sempre pensato che si chiedesse perché l’avessero adottato se il lavoro li teneva lontani; se era cresciuto forte e robusto lo doveva a quella donna anziana, se dentro al suo cuore aumentava il senso di solitudine lo doveva a quelle persone così distanti dalla sua vita. C’era stato un lungo momento di silenzio. Nessuno aveva il coraggio di parlare. Io sorseggiavo la mia coca cola con gli occhi fissi sulle mattonelle rosse. Giulia aveva spento in fretta la sigaretta perché si era accorta che suo padre la stava cercando. Gli bastava uno sguardo per farsi ubbidire. A malincuore era andata a casa. Erano quasi le dieci e mezzo. L’ultimo autobus sarebbe partito a minuti. Anche io dovevo andare, ma non potevo alzarmi, salutare come se niente fosse. Il silenzio pesava sulle nostre teste. Per fortuna Laura, che teneva d’occhio l’orologio e Valentina che si stava addormentando, mi avevano salvata da quella situazione spiacevole. Ci siamo incamminate verso la fermata ma dopo pochi attimi loro ci hanno seguite con i motorini. Volevano accompagnami a casa. Non so spiegare perché ho accettato. Sentivo che non mi avrebbero mai fatto del male, non mi sentivo in pericolo. Il senso di solidarietà e tenerezza che avevo provato nei confronti di Giovanni mi faceva, incoscientemente, sentire al sicuro. Paolo diceva che era meglio non andare da sola, così mi ha offerto un casco e sono salita sul suo motorino scoppiettante. Gli altri ci seguivano come guardie del corpo. Non ero comoda seduta con i piedi in bilico sui pedali del motorino, gentilmente concessi dal mio cavaliere, che mi pareva stesse surriscaldandosi, però nemmeno mi importava. Mi piaceva andare in motorino anche se non ne avevo uno. Non avevo paura. Mi tenevo al torace di Paolo rinfrescandomi il viso e mi tuffavo nell’aria trattenendo il respiro. Matteo faceva ondeggiare i suoi ricci bruni e canticchiava una canzone di Zucchero, Mirco guidava con la sigaretta accesa in bocca e azzardava un sorpasso a ogni curva. Sentivo che c’era qualcosa di magico intorno a me. Sentivo scorrere dentro di me la vita.

Erano le undici quando ci siamo fermati davanti al mio portone e sono scesa dal motorino. Ho restituito il casco sbucciato a Paolo e li ho ringraziati. Solo in quell’istante mi sono resa conto di non aver detto dove abitassi. È stato Giovanni a svelarmi il segreto. Mi ha spiegato che una sera d’inverno avevo preso il bus dalla fermata del bar assieme a un tipo poco raccomandabile. Così hanno deciso di seguirmi per assicurarsi che non mi accadesse qualcosa di male. Non mi ero accorta di nulla, né del tizio sospetto né tanto meno di loro che mi scortavano nell’ombra. Questo episodio mi aveva colpita. Ripensavo alle loro vite, alle scelte sbagliate, alle cose che avrebbero potuto essere, a ciò che avrebbero potuto diventare se solo avessero avuto il tempo e il modo di farlo. C’era un filo invisibile che mi legava a loro quattro; esisteva un destino diverso, mi dicevo, che ci attendeva e ci avvolgeva.

I mesi passavano con una lentezza straordinaria. L’autunno volgeva al termine e un pomeriggio di novembre io e le mie amiche abbiamo infranto tutte le regole e tutte le promesse fatte ai nostri genitori: un giro in macchina con loro a vedere i vecchi bunker della seconda guerra mondiale. Musica alta che stordiva, il solito odore pregnante del fumo e velocità eccessiva fino alla meta. Siamo scesi e ci siamo avventurati appena dentro alla costruzione scavata nella roccia. C’era un odore insopportabile, un tanfo che rendeva l’aria irrespirabile. Abbiamo preferito attendere il tramonto seduti sui grandi massi rovesciati. Quel giorno c’era anche Fabrizio. È stato lui a tirare fuori la storia di Girolimoni. Il mostro che uccideva le bambine nella Roma fascista. Una battuta su di noi, sul fatto che noi eravamo ancora bambine e loro i mostri di cui avere paura. Anche se avevamo preso tutte le precauzioni possibili Paolo sperava che nessuno ci avesse visto salire in macchina. Laura si era trovata nella condizione di rassicurarli, il che mi faceva ridere.

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