Dall’altra parte della strada (Parte prima)

Non so spiegarmi perché mi capita di ripensare a quel periodo. Mi succede spesso. A volte basta ascoltare una vecchia canzone oppure percorrere una strada che si inerpica in salita circondata da ulivi e arbusti che subito il mio pensiero viene attratto, come una calamita, dai ricordi. Ricordo me, Laura, Giulia e Veronica sedute sotto la veranda del circolo profumata dai glicini in fiore a aspettare il nostro turno per giocare a biliardino; parlare dei nostri sogni, dei ragazzi, della scuola e a scherzare e prendere in giro sul modo di camminare e di vestire stravagante di Armando: un uomo sui sessantacinque anni che indossava lunghi cappotti di pelliccia in inverno e variopinti pantaloni aderenti in estate. A nostro modo gli volevamo bene perché aveva il coraggio di non restare nascosto nell’ombra. Ci sorrideva quando passava oltre il muretto di pietra del circolo; noi lo salutavamo sempre sghignazzando. Lui non ci faceva caso. Si portava dietro una scia interminabile di commenti, lunga quanto la strada asfaltata che portava a valle. Era come vivere in un piccolo paese, anche se io non abitavo lì. Quasi ogni giorni prendevo l’autobus e scendevo al capolinea. Mi sembrava di venire catapultata dentro un’altra realtà, dentro a un altro luogo molto più verde dove le case non erano condomini schiacciati gli uni contro gli altri. Assomigliava a un solitario paese di campagna, arrampicato sulla collina più alta che domina il mare, eppure era anche una parte della città. Un borgo recintato e chiuso che scrutava con diffidenza chiunque fosse nato altrove e, di sera, si rifugiava silenzioso dentro alle sue antiche e strette mulattiere. 

Mi sentivo a casa perché conoscevo tutti: la merciaia e sua sorella che avevano il negozio proprio vicino alla chiesa e di fronte al bar tabaccheria, la anziana padrona dell’unico negozio di alimentari che profumava di caffè, la donna che vendeva il latte appena munto e che aveva un figlio matto che girava con una vecchia ape carica di fieno per i conigli; il padrone del ristorante dopo la grande curva a “U” che rimaneva dietro alla muraglia di pietra grezza la cui insegna sgualcita penzolava tra i rami di una quercia centenaria; il gestore del bar, chiamato da tutti “l’oste”, che portava spesse lenti e un grembiule ingiallito, il vinaio panciuto che aveva la cantina sotto la società. La mia amica Laura prendeva spesso il vino per suo nonno e poi glielo portavamo a casa in cambio di qualche biscotto. Ripenso anche lui. Era un omino minuto con il viso più sereno che avessi mai visto. Parlava poco e viveva de suoi ricordi in una strana casa di quattro stanze su due piani e fuori un giardino spoglio e malinconico. Laura e io andavamo a scuola insieme, eravamo compagne di banco e grandi amiche. Lei era una ragazza timida e riservata. I lineamenti del viso e soprattutto il taglio allungato degli occhi, la facevano assomigliare a un’asiatica. Per questo era soprannominata cinesina. Sua sorella Valentina aveva nove anni ma stava spesso con noi più grandi. Era una bambina allegra e spigliata; portava una treccia lunga e spessa che sia agitava come lei quando ci correva incontro. Giulia aveva due anni meno di noi e frequentava la terza media. Era alta e dimostrava di più dei suoi tredici anni anche perché già fumava. Aveva occhi azzurri e trasparenti che erano in contrasto con il suo modo di fare un po’ brusco e mascolino. Infine c’era Veronica, cugina di Laura, anche lei più giovane di due anni. Io la trovavo molto carina. Era, a differenza mia, spigliata e sfacciata. Suonava molto bene il pianoforte e cantava, ma innanzitutto vestiva alla moda. I nostri pomeriggi trascorrevano veloci.

A volte facevamo lunghe passeggiate e raggiungevamo il convento dei frati da cui si poteva ammirare un panorama meraviglioso. La linea dell’orizzonte si trovava sotto ai nostri piedi, così come la città che si espandeva come una ragnatela e abbracciava il mare aperto. A quel punto ci sedevamo sull’erba fresca, dopodiché ognuna di noi estraeva il walkman e si isolava godendosi quegli attimi di pace. Quei momenti, talvolta, erano disturbati dal ronzio fastidioso dei motorini che squarciavano la ghiaia candida e ordinata del piazzale del convento. Voleva dire che erano arrivati. Le ruote creavano solchi polverosi lasciando sospeso in aria un odore sgradevole di benzina e olio bruciato. Non serviva a niente sgridarli o cacciarli via perché sarebbero ritornati prima o poi. Tutti li ignoravano, ma più si sentivano ignorati e più facevano rumore e urlavano. Ridevano e si incitavano l’uno con l’altro. Erano i cosiddetti teppisti, i ragazzacci, i tipi da evitare, la cattiva compagnia, insomma la sintesi di tutti i mali. Ogni tanto li scrutavamo indifferenti ma col cuore che batteva. Conoscevamo i loro nomi e persino le loro famiglie. Paolo era il più giovane. Diciassette anni, un lavoro come apprendista, una madre e un padre mezzo alcolizzato che spesso lo picchiava e lo buttava fuori di casa. Matteo, diciannove anni, un lavoro da operaio, una ragazza carina e innamorata, una famiglia normale e preoccupata. Mirco, diciotto anni, un ragazzo grande e grosso, uno studente a tempo perso e una passione per le moto. Infine Giovanni, diciannove anni, figlio adottivo e, quindi, perennemente alla ricerca di qualcosa, un lavoro da tubista e tanti sogni.

Erano malvisti e un po’ temuti da tutti; avevano tutti e quattro nomi di santi, ma avevano una pessima reputazione e forse anche la fedina penale sporca. Quando veniva rubato un motorino tutti al “paese” sapeva che era stato Mirco, ma nessuno poteva provarlo. Fattostà che qualche giorno dopo il furto di un motorino o il danneggiamento di una macchina, lui si sedeva in sella al suo motorino equipaggiato di un nuovo e luccicante pezzo nuovo davanti al bar dalla fermata del bus fumando coi capelli biondi al vento e guardando tutti con aria di sfida. Mentre Paolo impennava, da fermo, anche lui con la sigaretta in bocca e le mani sporche di grasso nero. Io camminavo veloce cercando di passare inosservata. Attendevo l’autobus per ritornare a casa e intanto non perdevo di vista il gruppetto seduto sul muro adiacente al bar. Parlavano sempre a alta voce. Si atteggiavano a duri. Quasi sempre facevano finta di picchiarsi e inscenavano una rissa. La gente li guardava male e scuoteva la testa in silenzio. Talvolta li osservavo e mi facevano sorridere mentre fingevano di darsi un pugno; ridevo anche io quando Paolo faceva finta di allacciarsi le scarpe e invece metteva la fiamma dell’accendino sotto il sedere di Mirco. 

Ricordo quando hanno iniziato a frequentare anche loro il circolo. Era un’estate degli anni ‘80. Io avevo quindici anni e mezzo e avevo voglia di uscire dal mio guscio. Li aveva annunciati un rombo assordante. Noi ragazzi per bene siamo rimasti sorpresi a vederli entrare. Molti di noi li conoscevano e sono andati a salutarli. Io e le mie amiche siamo rimaste in disparte a studiarli, a esaminarli quasi incantate ma allo stesso tempo intimorite dai loro modi grezzi e dal loro linguaggio farcito di parolacce. 

2 pensieri riguardo “Dall’altra parte della strada (Parte prima)

  1. Davvero molto bello questo racconto: ricco di ricordo, leggerezza, speranze per il futuro.. Ed è davvero ben descritto.
    Sono curiosa adesso di leggere il seguito.😉

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